D O T T . S S A   E L E N A   M A Z Z I E R I
Psicologa Cognitivo Comportamentale

Chi sono


Psicologa Clinica e Psicoterapeuta Cognitivo e Cognitivo Comportamentale.

Sono laureata in Psicologia Clinico-Dinamica presso l’Università degli Studi di Padova e specializzata in Psicoterapia Cognitivo e Cognitivo-Comportamentale presso la Scuola “Studi Cognitivi” di San Benedetto del Tronto.
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Articoli

Autore: ELENA MAZZIERI 15 feb, 2021
Sono le due di notte . Siete tranquilli nel vostro letto e state dormendo ormai da un po’. Siete in un bel sonno profondo, quando all’improvviso vi svegliate di soprassalto , con il cuore che batte a mille, il fiato corto, un sudore freddo che scivola lungo la schiena e la convinzione che ci sia qualcosa che non vada. Che sia un infarto? Un ictus? Una qualunque altra malattia? Mentre mille dubbi vi attanagliano la mente, questa sensazione orribile sembra non passare, anzi… Vi sentite sempre peggio e cresce in voi il dubbio che forse state per morire . O impazzire . Bhe, comunque la mettiate, la situazione è tremenda. E pensare che fino a pochi minuti prima stavate dormendo beati! Non sto parlando di un film dell’orrore, anche se la paura forse è anche più intensa. Quello che ho provato a descrivere molto brevemente è l’ attacco di panico notturno . Si tratta di una forma panico intenso e terribile, perché avviene quando ci sentiamo indifesi ed incapaci di reagire : durante il sonno appunto. Solitamente accadono tra l’1.30 e le 3 di notte, nel passaggio dal sonno più leggero ( non-REM ) a quello più profondo (REM). I sintomi più comuni sono tachicardia ed irregolarità del battito cardiaco, difficoltà a respirare , tremori e vampate di calore o brividi di freddo . Si ha una costante paura di morire , al punto da arrivare a temere gli stati di rilassamento ed il sonno stesso. Come posso io pensare di dormire se, quando lo faccio, potrei non svegliarmi più? Allora iniziamo a lottare con il letto e con la notte, monitorando attentamente ogni minimo segnale che viene dal nostro corpo. Tutta la nostra attenzione è diretta verso il nostro corpo . Il cuore sta battendo troppo forte? Il respiro è affannoso? Nell’estremo tentativo di tenere sotto controllo il nostro corpo, questo finisce con il rispondere esattamente con i segnali che stiamo disperatamente cercando di evitare. Controllando ossessivamente il battito cardiaco nella speranza che le pulsazioni non salgano, non facciamo altro che aumentare la nostra preoccupazione. La conseguenza di tutto questo, ahimè, saranno proprio quei battiti più frequenti ed il respiro corto. Gli attacchi di panico avvengono solitamente quando le persone provano sensazioni sulle quali credono di non avere controllo . Queste sensazioni vengono interpretate come minacciose scatenando, di conseguenza, l’ ansia . Peccato però che l’ansia stessa produca quelle sensazioni corporee che poi interpretiamo come minacciose. Ecco qua che si attiva un circolo vizioso da cui sembra difficile uscire. A maggior ragione, la paura della paura diventa più forte se a scatenare i sintomi è il sonno, uno stato sul quale non abbiamo proprio alcun controllo. Non c’è da stupirsi se gli attacchi di panico notturni causano insonnia o deprivazione del sonno. Se l’ultima volta che ho perso il controllo (dormendo) mi sono svegliato con la sensazione di stare per morire, come faccio ad addormentarmi di nuovo? Si arriva a temere ogni stato di rilassamento, ogni stato in cui non riusciamo a prestare attenzione agli stimoli circostanti potenzialmente pericolosi. Essere sempre vigili e attivi significa essere pronti e preparati rispetto ad ogni possibile minaccia. Studi hanno dimostrato che chi soffre di attacchi di panico notturno si sente incapace di reagire di fronte a situazioni di minaccia inaspettate (Smith et al., 2019). In altre parole, non ci si può permettere di mollare la presa, perché se ci rilassiamo bhe… la catastrofe è imminente, e noi non siamo in grado di reagire. Se poi riusciamo ad addormentarci, siamo ipersensibili ad ogni minimo rumore o fastidio interno ed esterno. Ci si sveglia nel cuore della notte, proprio in quell’orario in cui, solitamente, avvengono gli attacchi di panico notturni. A tutto questo si accompagna una difficoltà nel trovare una causa scatenante . In fondo non stavamo pensando a niente di particolare, o se lo stavamo facendo proprio non riusciamo a ricordarlo. Stavamo solo dormendo. Questa incapacità di trovare il trigger, rende l’attacco di panico notturno ancora più spaventoso proprio perché imprevedibile. Potrebbe risuccedere in ogni momento e noi, persi tra le braccia di Morfeo, saremmo nuovamente impreparati e incapaci di reagire. Occorre distinguere tra il pavor nocturnus e gli attacchi di panico notturni . Il primo, molto frequente nei bambini, si verifica nella fase di sonno REM, a differenza degli attacchi di panico che avvengono nella fase non rem. Sebbene spesso le sensazioni sono simili (ansia, tachicardia, sudorazione e respiro corto), il pavor è legato ad un incubo, per cui una volta diventati consapevoli che si trattava solo di un brutto sogno, ci si riaddormenta. Questo non accade nell’attacco di panico, in cui non c’è un ricordo di un sogno e non si riesce mai a ritrovare il sonno. La mancanza di sonno, la difficoltà a rilassarsi ed il costante stato di allerta porta la persona a sentirsi sfinita, con conseguenze rispetto al funzionamento sociale e lavorativo. Purtroppo l’attacco di panico notturno non è così infrequente come si potrebbe pensare. Il 50-70% delle persone che soffre di attacco di panico sperimenta, almeno una volta, un attacco di panico notturno. Una buona notizia però: sono curabili. La psicoterapia Cognitivo-Comportamentale è il trattamento di prima scelta per il disturbo di panico e aiuta le persone a comprendere e gestire gli attacchi di panico. La maggior parte delle persone che segue un trattamento individualizzato ottiene risultati positivi e a lungo termine. Il che non significa che non avremo più attacchi di panico. Che siano notturni o diurni, gli attacchi di panico sono un po’ come il raffreddore: prima o poi lo avremo tutti. La differenza la fa un po’ la biologia ed un po’ le esperienze di vita. Ci sono persone che ai primi freddi iniziano ad avere a che fare con fazzoletti, naso che cola e fumenti, mentre altri possono uscire d’inverno senza sciarpa e non starnutire nemmeno una volta. Se poi lavoriamo all’aperto abbiamo più possibilità di incappare in una giornata piovosa e, quindi, di raffreddarci rispetto a chi lavora al chiuso. Una cosa è certa: nessuno è immune al raffreddore. Abbiamo solo imparato a gestirlo. Se siamo cagionevoli, cerchiamo di non uscire mai senza cappello o sciarpa, sappiamo riconoscere i primi sintomi e sappiamo intervenire con la cura più adatta a noi in caso di influenza. Con il panico funziona un po’ allo stesso modo. Grazie alla psicoterapia si impara a riconoscere e modificare gli stili di pensiero disfunzionali ed i comportamenti maladattivi che mantengono il disagio . Inoltre si apprendono tecniche per gestire e ridurre i sintomi dell’ansia . Insieme con il terapeuta la persona troverà la strategia più adatta a lui per superare gli attacchi di panico notturni e tornare a riposare. Dott.ssa Elena Mazzieri Smith, N. S., Albanese, B. J., Schmidt, N. B., & Capron, D. W. (2019). Intolerance of uncertainty and responsibility for harm predict nocturnal panic attacks. Psychiatry Research 273, 82-88.
Autore: ELENA MAZZIERI 08 feb, 2021
La sofferenza è uno dei motori principali che spingono le persone ad intraprendere un percorso di psicoterapia . Molto spesso quel dolore che proviamo diventa per noi così spaventoso che ci attiviamo prima ancora di sentirlo. Facciamo di tutto per sbarazzarcene . E non mi riferisco soltanto a comportamenti disadattivi come l’uso eccesivo di alcool o sostanze. Mi riferisco soprattutto a quei piccoli gesti che facciamo quotidianamente senza neanche accorgercene al solo scopo di non sentire quel dolore. Ci teniamo occupati con ogni genere di attività, parliamo con amici, parenti e fidanzati, rimuginiamo, razionalizziamo, pensiamo, facciamo di tutto pur di non stare nella sofferenza. Ciò che ci accomuna è proprio la sofferenza, una qualità tipicamente umana che pensiamo di aver accettato, ma che in realtà ci barcameniamo in tutti i modi per non sentire. Siamo così terrorizzati di fronte alla possibilità di provare il dolore che al primo campanello di allarme ci mobilitiamo per non sentire nulla. Siamo alla ricerca costante di un anestetico, di un antidoto al nostro dolore, come se stare male fosse qualcosa di inaccettabile. Altro che super-uomo. Dobbiamo sempre e soltanto essere al top, non accettando neanche la minima possibilità di essere meno rispetto al 100%. Cosa ci sarà poi di così orribile in quel 90% o, peggio ancora, 50%? Ora vi devo dare una cattiva notizia. Purtroppo in quella sofferenza dobbiamo starci . Ebbene sì… per affrontare un cambiamento , per poter evolvere, occorre davvero accettare la nostra sofferenza, non soltanto far finta. Perché ci crogioliamo nella illusione di aver accettato il nostro dolore, e di aver trovato la spinta per andare avanti. Ma la chiacchierata con l’amico o il collega, in realtà, non significa aver accettato la sofferenza. Aver corso per 10 kilometri allo scopo di scaricare lo stress, non significa aver conosciuto il nostro dolore. Arrancare alla ricerca di una cura che, per magia, ci faccia stare meglio in poco tempo, altro non è che una fuga estrema al nostro star male. Per accettare davvero il dolore, purtroppo, dobbiamo viverlo . Certo, stare male non è bello, tutt’altro. Stare seduti sul vuoto, accogliere quel dolore, quella sofferenza, è una delle cose più spaventose che ci possa accadere. Ma siamo davvero sicuri di non riuscire a gestirlo? Possiamo davvero superare le nostre paure senza davvero affrontarle? Prima di rifuggire dal dolore, è necessario accoglierlo a braccia aperte, comprenderlo, capire da dove viene e stare lì, seduti sul divano con quella sofferenza che ci spaventa così tanto. Soltanto comprendendo cosa ci fa stare male, accettando davvero (e non per finta) quella sofferenza, possiamo trovare le forze per rialzarci e riaffrontare il mondo con nuove risorse. Ascoltiamo quello che le nostre emozioni ci vogliono dire, non temiamole. Accettiamo la tristezza. Accettiamo la sconfitta. Accettiamo il fallimento. Accettiamo la perdita. Accettiamo l’ansia. Accettiamo la paura. Accettiamo tutto ciò che ci fa stare male. Scottiamoci, soffriamo, preoccupiamoci. Facciamo tesoro di questi insegnamenti. E poi rialziamoci. Dott.ssa Elena Mazzieri
Autore: ELENA MAZZIERI 01 feb, 2021
Tra le emozioni che causano maggiore disagio troviamo l’ ansia . Ormai fa parte del linguaggio quotidiano ripetere “ho l’ansia”, “mi fai venire l’ansia” e così via. Per molte persone, però, questa emozione fa parte della quotidianità. L’ansia sembra essere un elemento immancabile della vita di tutti i giorni, al punto che ci si preoccupa se non si è preoccupati. Il che diventa assolutamente opprimente. Vivere in uno stato emotivo così attivante quasi tutti i giorni per tutto il giorno porta la persona allo sfinimento. Cerchiamo di fare un passo alla volta e andiamo a capire in che cosa consiste questa emozione. Partiamo dal principio. Di fronte ad un determinato evento (A), ognuno di noi prova una specifica emozione (C) che dipende dalla valutazione che diamo all’evento stesso (B). Questa valutazione dipende dagli scopi attivi in un determinato momento e dal sistema di credenze che ogni singolo ha strutturato nel corso della vita. Le emozioni , quindi, ci tengono informati rispetto allo stato di successo o fallimento nel raggiungimento di uno scopo. Facciamo un po’ di chiarezza. La bocciatura ad un esame (A) può essere vissuta con tristezza (C) dal momento che la persona vede come fallito il suo scopo di laurearsi (B). Mentre la tristezza ci parla di uno scopo ormai fallito, e quindi ci prepara a riorganizzare le nostre risorse per perseguire un nuovo scopo, la paura ci avverte che uno scopo per noi importante è in pericolo, e che quindi dobbiamo agire per preservarlo. Nel caso della paura , lo scopo minacciato è la sopravvivenza stessa. Il corpo, quindi, si prepara alla reazione, attivando il sistema di attacco-fuga . Aumenta il tono muscolare ed il battito cardiaco, si interrompono le funzioni non necessarie in quel momento “ad esempio la digestione”, aumenta il ritmo respiratorio ed il corpo si prepara, appunto ad attaccare o a scappare per mettersi in salvo. Si tratta di un riflesso primordiale. Gli uomini preistorici, alla vista del leone, sono pronti a correre a gambe levate nella speranza di non finire sbranati. Col tempo abbiamo imparato a riconoscere i segnali che ci possono far presagire la presenza del leone. Non occorreva più vederlo, ma bastava sentire il fruscio delle foglie per mettere il corpo in allarme e prepararsi alla fuga. Ecco l’ansia, la “sorella evoluta” della paura . L’ansia ci prepara a scappare quando il pericolo non è ancora presente. Il problema dell’ansia è proprio la vaghezza di questo pericolo non meglio definito. Il che fa sì che ci si senta costantemente attivati per un attacco che potrebbe o non potrebbe mai arrivare. Lo scopo minacciato spesso è poco chiaro, così come non è ben definita la fonte stessa del pericolo. Non sappiamo neanche quando questo pericolo avverrà, sappiamo solo che potrebbe essere terribile, e quindi ci teniamo pronti. Siamo costantemente pronti . Il sistema di attacco-fuga è sempre attivo. Il cuore batte forte per irrorare sangue ai muscoli delle gambe che sono pronte a correre. È come tornare a vivere nella preistoria e dormire con un occhio aperto e l’orecchio teso ad udire qualunque minimo rumore ci possa far pensare alla presenza di un predatore. Peccato che, molto spesso, questo predatore non arrivi mai. Siamo spaventati all’idea di un qualcosa di imprevedibile , fuori dal nostro controllo. Per questo rimuginiamo nell’illusione di un controllo e di una prevedibilità di per sé inesistente. Per tutelare un nostro scopo, finiamo per perseguire un antiscopo . In altri termini, anziché compiere azioni per raggiungere un obiettivo (ad esempio, fare sport per tenersi in forma), compiamo atti per evitare che accada il contrario (ad esempio, evitare di parlare in pubblico per non fare brutta figura). Concentriamo tutte le nostre energie nel tentativo di evitare quel qualcosa di terribile e pericoloso che potrebbe (o non potrebbe) accadere. Tutto questo non farà altro che confermare la pericolosità dell’esporsi, aumentando l’immagine di sé come incapace di fronteggiare i rischi, come debole ed indegno. Perché, quando si parla di ansia, occorre puntare l’attenzione sull’immagine che la persona ha di sé. Ci si sente incapaci ad affrontare situazioni nuove e sconosciute. L’ansia aumenta all’aumentare non solo della gravità dell’evento temuto e della sua probabilità di avvenimento, ma anche al diminuire della propria capacità di tollerare e di porre rimedio alla “catastrofe”. Ci si vede come deboli ed incapaci di reagire, cosa questa che rende la minaccia ancora più terrificante. Si finisce così per essere prigionieri all’interno di pensieri , comportamenti ed emozioni che non faranno altro che aumentare la sensazione di pericolo e lo stato di ansia costante, sentendosi intrappolati in un vortice senza fine dal quale diventa difficile uscire. Di tutto questo si parla in seduta con il proprio terapeuta. Insieme si andrà a ricostruire la storia del disturbo, dal primo esordio fino agli episodi più recenti. Si andranno ad indagare i pensieri disfunzionali e le credenze alla base del disturbo, l’antiscopo ed i vantaggi e gli svantaggi delle strategie messe in atto fino ad ora. Al tempo stesso si introdurranno tecniche per la gestione dell’ansia o altre tecniche comportamentali come, ad esempio, l’esposizione graduale a stimoli e pensieri giudicati pericolosi. Il tutto sarà calibrato in baso alle esigenze del singolo individuo e discusso passo per passo, in un clima di collaborazione e di partecipazione attiva tra paziente e terapeuta. Uscire dalla schiavitù dell’ansia è possibile. Dott.ssa Elena Mazzieri
Autore: ELENA MAZZIERI 27 gen, 2021
Nell'ambito del lavoro con i genitori, noto spesso un tema ricorrente: il senso di colpa . Di fronte a difficoltà comportamentali o emotive dei propri figli , i genitori si colpevolizzano e si interrogano rispetto a cosa hanno fatto di sbagliato e cosa possono migliorare. Ho notato, inoltre, che le mamme tendono a sentirsi inadeguate nel loro ruolo genitoriale forse più dei padri. Il che non significa che gli uomini si sentano dei super-papà infallibili, anzi... Quello che ho notato è che spesso le mamme sentono di più il peso di quella che definirei " perfezione genitoriale ". Molto spesso si sentono giudicate per i comportamenti inadeguati dei figli, sentono il peso di dover essere perfette , soprattutto nei casi in cui sono loro a trascorrere la maggior parte del tempo in casa ad occuparsi della cura dei bambini. E da lì nascono una serie di pensieri disfunzionali che fanno sì che si sentano inadeguate, incapaci, non in grado di crescere i figli. Andando ad indagare, noto spesso che questi pensieri sono insorti molto precocemente, già in gravidanza o nei primissimi giorni di vita dei loro piccoli. Durante i nove mesi di gestazione, al crescere del bambino, crescono anche i timori e i dubbi di ogni genitori, mamma o papà che sia. Nella donna, però, vanno ad incidere non poco anche i fattori ormonali. Al crescere della pancia, crescono anche le domande rispetto al " come sarò da mamma? Sarò in grado di crescere bene mio figlio?" A tutto questo si va ad aggiungere la pretesa di essere genitori perfetti, che non commettono errori, che sono in grado di occuparsi in maniera adeguata del proprio bambino. Il desiderio di perfezione, ahimè, non potrà mai essere esaudito. In fondo non esistono genitori perfetti, così come non esistono persone perfette. Che cos'è poi la perfezione? Il ricorrere qualcosa di ideale ma irraggiungibile non può far altro che aumentare il senso di inadeguatezza che stiamo cercando di rifuggire tanto ardentemente. Più ricerchiamo la perfezione più questa ci sfugge. E allora ci si sente incapaci, inadeguati, incompetenti, genitori non in grado di compiere il loro mestiere. Maledetto sia Winnicott e la sua " madre sufficientemente buona ". Perché implica che la mamma possa non essere buona. E se fossi una madre cattiva ? Ricominciano i pensieri disfunzionali che non fanno altro che aumentare ansia, tristezza e sensi di colpa. Nessun genitore, e soprattutto nessuna mamma sarà mai salva rispetto al pensiero di non essere all'altezza del compito importantissimo che si trova davanti. Il problema si pone quando questo senso di inadeguatezza diventa opprimente, al punto da essere pervasi dalla tristezza , dall' impotenza , dai sensi di colpa . Questo comporta una incapacità di relazionarsi adeguatamente con il proprio bambino , con il rischio di conseguenze negative per lo sviluppo psico-fisico dello stesso. Come dicevo poco fa, sentirsi impostori in un ruolo che non sappiamo gestire è una cosa molto comune. Spesso questa sensazione arriva molto presto. Per me è iniziato dopo un solo giorno dalla nascita di mio figlio. E già... come dicevo nessuno è immune all'inadeguatezza. E nonostante abbia speso ore ed ore nel cercare di sradicare nei genitori il pensiero di essere inadeguati ed incapaci, sono caduta anche io in questa trappola di pensiero. Venivo da un parto non più difficile di altri, ma per tutto il tempo una ostetrica mi ripeteva che non stavo facendo abbastanza e che per colpa mia il bambino stava soffrendo. Per quanto comprendessi che stesse cercando di spronarmi, devo dire che già in me il dubbio dell'inadeguatezza si stava instillando: nemmeno era nato ed io già stavo facendo soffrire mio figlio. Poi però le cose sono andate bene e quel pensiero se ne è andato. Il giorno dopo è successo il "fattaccio". In tempo di COVID in ospedale non poteva stare nessuno ed io, sola con il bambino, stanchissima dal parto e dalle notti insonni, mi sono addormentata. Quando mi sono svegliata ho trovato mio figlio piangente in braccio ad una infermiera che cercava di calmarlo. Non so da quanto tempo piangesse, ma se addirittura è dovuta intervenire una infermiera, posso immaginare che stesse gridando da diversi minuti. Ed eccola lì, la conferma di essere una madre inadeguata, addirittura incapace di sentire il proprio figlio piangere per la fame. Sono saltata giù dal letto con uno scatto che non ho mai fatto in vita mia, profondendomi in infinite scuse per essermi addormentata e non aver sentito il pianto. Mi sentivo proprio una madre degenere, ed il fatto che altri se ne fossero accorti non faceva altro che aumentare la mia vergogna e il mio senso di colpa. Tra stanchezza, tempesta ormonale e dolori vari, non riuscivo a scacciare dalla mente il pensiero di essere una "cattiva madre". Da quel momento non ho fatto altro che ricercare conferma rispetto a questo pensiero. E allora osservavo le mie compagne di stanza, entrambe al secondo figlio e quindi, secondo me, mamme esperte. " I loro bambini mangiano più del mio, io non sono in grado di farlo crescere! " oppure " Loro non si lamentano per il dolore al seno, io sono una pappamolle incapace di allattare ", e così via. Anche a casa, questi pensieri non mi abbandonavano. Per circa una settimana non riuscivo a togliermi di dosso la sensazione di essere inadeguata. Mi sentivo stanca , irritabile , avevo crisi di pianto e mi sentivo incapace rispetto al mio ruolo di madre . Ricordo con chiarezza il momento in cui sono riuscita a disputare i miei pensieri disfunzionali. Parlando con mia mamma rispetto al dolore dell'allattamento, lei si è portata una mano al petto e, con espressione dolorante, ha detto "me lo ricordo". Mi si è aperto un mondo. Se a distanza di più di trenta anni ancora si ricorda quel dolore, vuol dire che forse proprio proprio pappamolle non sono. Nonostante anni di studi, non ero stata in grado di riconoscere la maternity blues . Quello che stavo provando era un senso di tristezza e inadeguatezza normale nel post partum, che tendono a scomparire in circa dieci giorni . Cosa fare in questi casi? Cercare supporto da parte dei familiari, parlare ed esprimere i proprio sentimenti ed, infine, ricercare il contatto pelle a pelle con il neonato. Non per tutte le donne, però, le cose si risolvono così facilmente. Talvolta lo stato di umore alterato può perdurare molto di più di 10 giorni , la mamma fatica a rasserenarsi ma continua ad essere nervosa, irritabile, triste o non volersi occupare del bambino . Possono anche insorgere disturbi del sonno o dell’alimentazione per più di due settimane. In questo caso si parla di depressione post partum , una condizione molto più seria che merita di essere presa in carico da un professionista. La depressione post partum può insorgere anche dopo tre o quattro mesi dalla nascita del bambino, il che rende per la donna ancora più difficile parlare di questa condizione. Aumentano i sensi di colpa e di inadeguatezza, esacerbati dal pensiero " non sono più come prima ". Possono inoltre insorgere pensieri negativi nei confronti del figlio , cosa questa che provoca molta vergogna e fa sì che la donna si isoli e si chiudi in se stessa, allontanando anche un eventuale supporto proveniente dal contesto familiare. Ammettere di essere stanche, di rimpiangere la vita di prima, di sentirsi arrabbiate nei confronti del bambino quando piange alle 3 di notte, appare disdicevole. Ci si sente messe alla gogna, sotto accusa, additate di essere inadeguate. Tutti si sentono liberi di esprimere la propria opinione (spesso non richiesta) rispetto a come crescere un bambino nel modo giusto. E allora meglio non parlare con nessuno, chiudersi in casa senza chiedere aiuto. Il problema è che così i pensieri non faranno che peggiorare, ci si sentirà sempre più stanche e sfinite, al limite della derealizzazione. Fondamentale è notare i campanelli di allarme e chiedere aiuto ad un professionista. Perché ogni genitore si sentirà sempre inadeguato, ogni genitore rimunginerà sui propri interventi educativi restando nel dubbio del " avrò fatto bene? ", ma occorre ricordarsi che non esiste una guida per il genitore perfetto. Nel processo di crescita del figlio anche i genitori maturano ed apprendono con lui, scoprendo cose nuove e nuovi modi di interagire con il figlio. L'unica cosa certa è che si faranno errori, ma questo non significa essere "cattivi" genitori. Significa essere umani. Restare incastrati nell'idea di essere incapaci, invece, non farà altro che ricercare tutte quelle informazioni che confermeranno il nostro pensiero, aumentando soltanto il malessere e creando difficoltà nella relazione genitori-figli. Se pensiamo di non farcela, chiediamo aiuto . La Terapia Cognitivo-Comportamentale è indicata come trattamento d'elezione per la depressione post partum. Insieme con il terapeuta, si andranno ad identificare i pensieri disfunzionali e le emozioni conseguenti, così da introdurre pensieri alternativi che modifichino sia lo stato emotivo che i comportamenti. Questa terapia, pratica e concreta, è focalizzata sulla risoluzione di problemi centrati sul "qui ed ora". Con l'aiuto di un professionista la mamma può superare la condizione di depressione post-partum, migliorando la propria qualità di vita e la relazione con il proprio bambino. Dott.ssa Elena Mazzieri
Autore: ELENA MAZZIERI 25 gen, 2021
I recenti fatti di cronaca ci spingono a fare una riflessione rispetto all'uso che i nostri figli fanno dei socia l . Soprattutto ci spingono a chiederci come i genitori si dovrebbero comportare rispetto a questo argomento. Mi sto riferendo alla morte di una bambina si soli 10 anni in seguito ad una " challenge " di TikTok . Una notizia sconvolgente, che ha spinto genitori ed esperti ad interrogarsi su come tutelare i giovani rispetto a social che, in fondo in fondo, per noi adulti sono quasi incomprensibili. Per prima cosa occorre comprendere che, ahimè, nessuno di noi è immune agli effetti negativi dei social . Nessun genitore e nessun esperto può ergersi a paladino del "i miei figli questo non lo fanno". Per quanto ci farebbe piacere e ci tranquillizzerebbe, devo darvi una brutta notizia: può succedere a chiunque. Il che non significa essere cattivi genitori o pessimi educatori. Non implica che non siamo stati in grado di crescere bravi bambini. Mi vengono in mente i commenti letti in seguito alla notizia dell'obbligatorietà dei dispositivi anti-abbandono sui seggiolini auto per i bambini. Sarebbe bellissimo poterci crogiolare nel pensiero del "a me non succederà mai", ma dobbiamo fare i conti con una società che cambia, con dei ritmi di vita che non sono più quelli dei nostri genitori. E in questa frenesia può succedere a chiunque di essere più stanchi del solito, più in ritardo del solito, più distratti del solito. E allora ben vengano prodotti e tecnologie che ci aiutino e tutelino i nostri piccoli. Lo stesso ragionamento si può fare rispetto ai social. Vietarne l'uso ai ragazzi significa privarli di una parte di sé, di una opportunità di sviluppo e crescita personale, di un modo per interagire con i pari che noi proprio non riusciamo a capire. Lavoro da anni nell'ambito dei servizi educativi, e con i colleghi ci siamo dovuti piegare alle challenge di TikTok, sebbene, lo devo ammettere, da adulta faccio fatica a capirne il senso. Cerchiamo di capire di cosa si tratta. Qualcuno fa un balletto e sfida gli altri a rifarlo. Semplice così. Ci si riprende con il telefono, si monta il video con qualche effetto speciale che la app fornisce e si pubblica con i famigerati " hashtag ", un modo per rendere facilmente raggiungibile per tutti quell'argomento o quel tipo di video. Parte poi la gara dei " like ". Nel villaggio globale, il like non è più solo quello dei nostri amici o conoscenti. Anche l'influencer che ha lanciato la sfida può mettere il like. Cosa di cui vantarsi con gli amici! Dietro il piccolo schermo dello smartphone, i ragazzi nascondono sogni, amori, amicizie, identità... insomma: l' adolescenza . In un periodo storico in cui uscire di casa è spesso sconsigliato, le esperienze di vita si fanno online . Il che implica anche commettere errori. Vi ricordate quando si impennava con il motorino? Ecco, ora dobbiamo immaginare che si fanno altre "ragazzate", e spesso queste sono online. Il che non significa che siano meno pericolose, anzi... Che fare quindi? Per prima cosa, lo ripeto, il mio consiglio è quello di non vietare i social . In fondo, un modo per impennare lo trovavamo lo stesso, anche se noi non avevamo il motorino. Con i social ora è ancora più semplice raggirare i divieti dei genitori. Senza contare che in adolescenza, tutto ciò che è proibito è ancora più attraente, soprattutto se tutti gli amici ce l'hanno e noi no. Forse è meglio i nsegnare loro ad usare internet in modo corretto piuttosto che tagliare fuori i ragazzi da una parte fondamentale della socializzazione moderna. Dobbiamo tenere in considerazione che la vita dei nostri figli si svolge in parte online . Che cosa significa? Vi ricordate l'interrogatorio dei genitori quando uscivamo di casa? "Dove vai? Con chi? Chi sono i genitori? Cosa fate? ecc..." Bhe, perché non proviamo a chiedere ai ragazzi cosa fanno online ? Come mentivamo noi allora potrebbero mentire i ragazzi ora, ma sapranno, come lo sapevamo noi, che i genitori ci sono e che tengono in considerazione i nostri spazi e momenti fuori dal nucleo familiare. Controllare i telefoni? Il consiglio che vi do è quello di parlare con i figli, soprattutto durante i primi approcci con il mondo di internet e dei social. Spieghiamo loro i pericoli che potrebbero esserci, e che mamma e papà sono sempre pronti ad a scoltarli ed intervenire in ogni momento senza giudicarli . Cerchiamo di entrare nei loro spazi privati senza però invaderli. Chiediamo di condividere insieme dei momenti, magari anche qualche challenge di TikTok. Come accennavo poco fa, lavorando nei servizi educativi ci siamo dovuti piegare a questi balletti. I bambini ce lo chiedevano e noi, o per lo meno io, non avevo idea di cosa parlassero. Allora ci siamo seduti e abbiamo esplorato il social insieme. Oltre ad aver imparato molte cose nuove (chi lo sapeva che esistessero così tanti filtri per fare un video di soli 10 secondi?), i bambini sono stati contenti e insieme abbiamo avuto l'occasione di parlare dei pericoli che nasconde la rete. A dire la verità, ci divertiamo un mondo a fare questi video insieme. E' diventato un momento di condivisione. Insieme scegliamo la sfida del momento, facciamo le prove, registriamo e poi ci riguardiamo più volte ridendo dei nostri successi e insuccessi da ballerini. Perché non farlo anche in famiglia? Cedere a questi balletti non è il massimo, ma è sicuramente un modo per stare con i nostri figli e condividere il loro mondo. Anche un modo per controllare un po' quello che fanno, ma questo non glielo diciamo espressamente. Un altro consiglio che posso darvi è quello di tenervi aggiornati. Facebook, Instagram, TikTok, non possono essere degli estranei per noi. Possono non piacerci, ma dobbiamo conoscerli. Solo così possiamo entrare in contatto con i figli e magari capire quali pericoli si possono nascondere dietro i social. Oltre alle opportunità. Perché i social non sono soltanto un mostro da demonizzare. Sono anche una opportunità di crescita e di contatto, occorre imparare ad usarli bene. E come posso io, bambino, imparare ad usare bene un qualcosa che i miei genitori non sanno cosa sia? Come posso guidare qualcuno in una nuova città se io non conosco le strade? Internet ed i social funzionano un po' allo stesso modo. Per insegnare ai nostri figli a difendersi dalle insidie della rete, dobbiamo fare lo sforzo di conoscerle. Attenzione però. Non sto dicendo di aprire profili social e pubblicare di tutto e di più. Soprattutto quando i ragazzi iniziano a diventare grandi, evitiamo di pubblicare foto che li riguardano senza chiedere loro il permesso. Per quanto siamo genitori fieri ed orgogliosi dei nostri figli, il post selvaggio è simile all' "amore di mamma" gridato davanti agli amici il giorno del nostro sedicesimo compleanno. L'unica differenza è che il post resta online, un imbarazzo continuo. L'"amore di mamma" gridato, dopo un po', viene dimenticato. Infine, dobbiamo metterci il cuore in pace. Per quanto non ci piaccia, parte della vita dei nostri figli ci resterà sconosciuta. Per crescere hanno bisogno di sperimentare cose nuove lontano dai genitori . E noi dobbiamo gestire la frustrazione e l'ansia di un qualcosa che non possiamo conoscere né controllare. Il compito di noi genitori è quello di esserci, sempre. Con la nostra vicinanza e la nostra presenza, anche quella online, forniamo ai figli gli strumenti per crescere ed affrontare il mondo da soli. Non sempre possiamo proteggerli e non sempre possiamo avere voce in capitolo rispetto a come useranno queste armi. Il che è tremendo per noi, ma è il bello di crescere. Cerchiamo di ricordare come eravamo noi da ragazzi, quello che abbiamo fatto nel bene e nel male. Cerchiamo di tutelare i figli al meglio che possiamo, facendo parte della loro vita senza soffocarli. Facciamo sentire la nostra presenza, saranno poi loro a cercarci. Ricordate, genitori, che state facendo il meglio che potete . Dott.ssa Elena Mazzieri

Non puoi tornare indietro e cambiare l'inizio, 
ma puoi partire da dove sei e cambiare il finale.
- C. S. Lewis

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